UN RACCONTO
In Busta Chiusa n. 19, un Progetto di Cartaresistente
Lettera R di Grazia Lodigiani
Illustrazion di Davide Lorenzon
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Il tipo di cui si era innamorata quell’estate guidava un Ritmo nera. Lo aveva conosciuto alla fine di giugno, lo ricordo bene perché sono stato io a presentarglielo e perché lei, nelle settimane subito dopo la chiusura delle scuole, non era mai uscita di casa, impegnata com’era a curarsi la varicella. Nell’estate dei suoi sedici anni si era presa una malattia da bambini – lei, che oramai di infantile non aveva più nulla.
Appena si era ripresa, aveva dato un ultimo appuntamento al ragazzo suo coetaneo con cui stava dall’inverno. Tra di loro era finito tutto a un tavolino del bar della piazza, l’unico raggiungibile facilmente anche da chi non possedeva altro che scarpe da tennis e una bicicletta in prestito. C’era stata una lunga conversazione di cui conoscevo ogni battuta: un dialogo surreale di quelli su cui vale la pena prendere appunti, anche di seconda mano, anche solo mentali, perché può sempre arrivare il momento di usarli.
“Non puoi dirmela così, questa cosa, dirmela e pensare che io faccia finta di non averla sentita” l’aveva accusata. Lei aveva tenuto lo sguardo sulla tazza e si era toccata la frangia, tirandola tra il pollice e l’indice della destra – un gesto che le vedo fare spesso, in questi giorni.
“Come dovevo dirtela?” gli aveva chiesto. “E cosa significa che devi fare finta di non averla sentita? Non ho intenzione di chiederti di fingere.”
Lui teneva le mani salde sul tavolo stringendone il bordo, le nocche bianche per lo sforzo. La cameriera si era avvicinata proprio in quel momento, aveva tolto la tazzina davanti a lui, guardato la tazza di lei ancora fumante. Si era allontanata senza dire nulla.
“Credevo avessi l’influenza” aveva ripreso lui cauto. “Mi avevi detto che era influenza.”
“Mi spiace averti mentito.”
Riportandomi la conversazione, lei diceva che non avrebbe voluto dirgli nient’altro e che mentre immergeva la bustina di tè nell’acqua bollente le sembrava proprio di potercela fare. Ma poi aveva cambiato idea.
“No, non è vero, non mi spiace averti mentito. Non è che potevo dirti di essere cosparsa di bolle. E comunque è uguale: restare sola mi ha fatto capire che è così che voglio stare.”
Lui aveva finalmente deciso che ne aveva abbastanza: aveva mollato il tavolo e, dopo avere fatto schioccare tutte le nocche delle dita, una per una, le aveva detto quella cosa bellissima, quella che lei adesso, nonostante tutto, non riesce a dimenticare.
“E’ stato un amore raro, il nostro. Il mio, cioè, per te. E fingere che non sia stato così mi è impossibile.”
Le era toccato pagare il conto del caffè e del tè, una cosa che non aveva mai dovuto fare prima e che interpretò essere l’inaugurazione dell’estate.
La Ritmo nera arrivava ogni sera dalla strada che costeggiava il fiume: attraversava il paese e spariva all’incrocio del cimitero, diretta verso la città. Il ragazzo alla guida era biondo e con un bel sorriso, di quelli che piacciono a lei.
Una sera l’auto si era fermata davanti alla panchina vicino alla fontana, posto di ritrovo della compagnia che frequentavo, e lui mi aveva salutato sporgendosi dal finestrino; ci eravamo conosciuti a caccia l’autunno di diversi anni prima, e stavamo parlando dei nostri conteggi, delle prede e della prossima stagione, quando lei arrivò. Glielo presentai come un caro amico. Lei disse poche parole, stava facendo un giro per chiedere un prestito di cinquemila lire, voleva giocare a biliardo. Lui finì di parcheggiare, cavò di tasca il portafoglio e la accompagnò alla sala giochi.
Li incontrai ancora un paio di volte in quei mesi ma mi disinteressai presto a quella avventura estiva, perché c’era il sole e il tempo lasciato libero dalla sospensione delle lezioni; e anche perché una storia che nasce non è mai interessante quanto una storia che finisce.
L’ho ritrovata a metà settembre, le braccia e le gambe abbronzate, i capelli più lunghi e le lentiggini sul viso. Sul bus che prendiamo per raggiungere il suo liceo e la mia università mi ha raccontato di un paesino sulle Dolomiti dove è stata con i genitori e della località sull’Adriatico dove vive sua nonna. Con il ragazzo dell’estate ha passato pomeriggi sul fiume e calde serate a un santuario che conosco, meta di fedeli e turisti.
Il santuario è stato costruito su una collina dove una donna oramai anziana dice di avere visto la Madonna, una serie di apparizioni benedette che ha prodotto miracoli e guarigioni; il posto è sempre così affollato da rendere necessario l’utilizzo di altoparlanti per permettere a chi non riesce a entrare di ascoltare la messa e le preghiere all’esterno.
“Gli piaceva quel posto” racconta sul bus, dove ci sediamo vicini, in fondo. “Parcheggiava in mezzo ai pullman turistici e voleva che prendessimo la scalinata, quella che arriva fino alla strada di sotto. La scendevamo e risalivamo più volte, lentamente, fermandoci a ogni terrazza: lui ripeteva ad alta voce le preghiere, mi chiedeva di farlo insieme a lui. Manco mia nonna era mai riuscita a farmi recitare il rosario!”
Ride mentre lo racconta, ride e si tira la frangia tra il pollice e l’indice della destra. Dice ancora:
“Era noioso, ma più tardi, dopo le cinquanta avemarie, dopo tutti quei gradini, finalmente potevamo riprendere la macchina.”
Io la guardo e penso alle foto che lui mi ha mostrato in quegli ultimi autunni, quelle che usiamo per i nostri conteggi durante la stagione – belle ragazze riprese su una scalinata, qualche volta con il santuario sullo sfondo.
Ancora oggi, a distanza di settimane, le piace trovare nuovi particolari, essere l’unica protagonista di racconti che sembrano essere stati scritti solo per lei. Se la interrompo, si arrabbia perché perde il filo, deve narrare tutto di seguito: della varicella, della bicicletta in prestito, della tazza fumante, del biliardo, della scalinata, dell’intimità sulla Ritmo.
La sua voce è bella, ci sono dentro tutti i suoi sedici anni: vorrei conoscere il modo per conservare le sue certezze, cristallizzarle in un’età senza pazienza né pudore, ma non so farlo. Posso metterci solo la cura con cui ogni mattina tengo la sua mano e guardo le lentiggini scolorire sulla sua pelle. La stagione della caccia riaprirà tra poco.
(Stagioni di caccia, Grazia Lodigiani)
Complimenti Grazie. Mi sono davvero vista tutte le scene. Descrizioni vive!
Ma io ora non posso mandarti nemmeno una riga di quello che, come esercizio, ho iniziato a scrivere perchè mi vergogno
Io ti aspetto!
un racconto nostalgico, dolce e amaro. mi è piaciuto
Grazie!
Chissà quali erano le sue richieste al cielo mentre pregava…
Un uomo che varrebbe la pena di continuare ad esplorare in altri racconti.
figurati se non mi piace…
Ciao Cinzia!
Me lo ricordo questo racconto, ma dove l’ho letto?’
Brava Grazia, avanti così……..i corsi con Montanari (quanto mi piace,lui!)….
p.s. ma il tuo blog continua?